Il dollaro è il motore dell’America. E lo sport è da sempre uno degli spettacoli più importanti per il popolo Usa, che insieme al football, al baseball, al basket e all’hockey ha anche le corse al galoppo come punto di riferimento. Non è un caso se, sul modello di NFL, MLB, NBA e NHL, anche l’ippica si è strutturata con una “lega”. E non è un caso se, così come accade per tutti gli sport professionistici, la spettacolarizzazione dell’evento sia al centro delle attenzioni degli organizzatori, che hanno come logico obiettivo il massimo coinvolgimento del pubblico. La Breeders’ Cup è figlia della cultura Usa. Lo è nel suo essere “esagerata”, nella ricerca della massima copertura mediatica che porta poi il prodotto offerto ad essere appetibile per gli sponsor. Lo è nelle scelte tecniche e di marketing, perché se da una parte il progetto di creare un evento “itinerante” è stato varato per tenere coinvolto un Paese enorme, dall’altra ci sono le scelte strategiche che riguardano location e orari delle corse. Non va dimenticato che gli Stati Uniti non sono certo un Paese uniforme, che le differenze fra la West e la East Coast vanno ben oltre le tre ore di fuso orario e che in mezzo cè tutto un Continente che rappresenta l’America profonda, quella che appare anche in diversi film, quella contadina e isolazionista. La Breeders’ è certamente una “bandiera” Usa. Perché agli americani piace terribilmente lo scontro con gli stranieri, soprattutto quando partono da favoriti. È l’occasione per dare una dimostrazione di potenza, per dimostrare che anche nel galoppo sono una super-potenza, anzi La super-potenza. Ma la Breeders’ è anche, in perfetto stile Usa, un business importante sotto il profilo economico.
L’articolo completo lo potete trovare nell’edizione di Trotto&Turf di sabato 7 novembre.
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