Il mercato dei sogni fuori dall’Italia

Binocolo puntato
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Dai risultati delle aste americane che vi ha raccontato Paolo Romanelli, a quelli di tutta Europa, con un segno positivo praticamente ovunque. Il mercato dei purosangue non solo è vivo, ma prosegue a velocità impressionante, quasi che lo stop per il Covid e la congiuntura economica globale non interessino a chi decide di investire su un cavallo da corsa a colpi di centinaia di migliaia (se non milioni) di euro, o di ghinee o di dollari. Nei ring arrivano offerte impressionanti, si consumano battaglie all’ultimo bid, c’è insomma un clima infuocato per assicurarsi un cavallo, sia esso uno yearling, un foal oppure una fattrice, come sta accadendo in questi giorni a Newmarket. Godolphin riduce numericamente, ma ci sono altri pronti ad acquistare e i pezzi più pregiati spuntano cifre milionarie quasi senza un attimo di tregua, piazzando un record dopo l’altro.

C’è il mercato, quindi ci sono i proprietari. Ci sono perché ci sono i premi, ma anche e soprattutto perché l’essere proprietario di un cavallo da corsa è considerato un investimento, probabilmente non solo economico ma anche e soprattutto d’immagine e di passione. Volano i milioni e la ruota gira sempre più vorticosamente. Perché un mercato delle aste che propone cifre alte significa risorse per l’allevamento che può così vedere i suoi investimenti ripagati con i breeders che a loro volta possono acquistare fattrici o cavalle a fine carriera ad alto prezzo e/o stalloni pagandoli profumatamente. Questo ovviamente porta soldi nelle casse dei proprietari, che grazie anche a questi incassi alimentano il mercato degli yearling in un circolo che porta a incrementare il giro d’affari e la ricchezza complessiva del comparto.

Leggi di mercato, in questo caso abbinate a investimenti che hanno una forte componente passionale ed emozionale, ma che possono anche rivelarsi carte vincenti sotto il mero profilo economico. Leggi che valgono per tutti i Paesi più evoluti dell’ippica mondiale, ma che sembrano non coinvolgere purtroppo l’Italia, ancora stretta nella morsa di una crisi che proprio per essere anomala nel panorama mondiale fa ancora più arrabbiare. Nella storia dei settori economici ci sono attività che vanno esaurendosi. Pensate alle pellicole fotografiche o ai tubi catodici dei vecchi televisori, letteralmente spariti dalla faccia della terra insieme con le fabbriche che li producevano.

Per questo il crollo dell’ippica italiana va registrato come una sorta di anomalia rispetto a quanto accade in quasi tutto il mondo. È vero che ancora prima di noi vi sono stati i sistemi ippici di altri Paesi che hanno avuto problemi (Germania, Olanda, Belgio…), ma le dimensioni di quei movimenti e la loro importanza non erano neppure paragonabili con quelle italiane, che, al contrario, negli ultimi decenni del secolo scorso erano quasi confrontabili con quelle dei top in assoluto. Il galoppo italiano ha smontato pezzo dopo pezzo il suo allevamento, vendendo quasi tutte le migliori fattrici. E se in qualche caso il peso delle offerte che sono arrivate dal Giappone, dagli Stati Uniti o da altri big era tale da non consentire repliche, abbiamo visto (e vediamo ancora) ottime cavalle vendute per qualche decina di migliaia di euro sui mercati esteri.

Certo in tutto ciò influisce anche la necessità di monetizzare a fronte di pagamenti che hanno raggiunto un ritardo di quasi un anno, ma c’è indubbiamente anche una componente irrazionale. Guardandosi in giro per l’Europa, anzi per il mondo, si può facilmente capire perché valga la pena di puntare ancora sull’ippica. Anche in Italia. Il motivo è che qualcosa che funziona (bene) praticamente dappertutto non ha un buon motivo per non funzionare anche qui. O meglio il motivo c’è ed è assolutamente chiaro ed è legato all’organizzazione del settore, anche qui diversa da quelle di tutto il resto del mondo.